Ponte Cervaro: L’inferno del 10 maggio 1944

Tratto dal libro “La storia mai scritta del Comandante Marcello Partigiano Azzurro” Di Terenzio Succi e Franco Adravanti. YouCanPrint 2013

Dalle preziose note manoscritte che il comandante Marcello ha lasciato, vergate con una calligrafia fine e stretta, possiamo rivivere i tragici avvenimenti del 10 maggio 1944. “Data che resterà memorabile nella storia della vita partigiana nel modenese”, come egli stesso si esprime:

MARCELLO: Nel pomeriggio del 9 maggio avevo fatto una riunione della nostra squadra a Casa Pace, un gruppo di case sulla destra del Torrente Cervaro, che aveva assunto il nome pomposo di “distretto”. Gli scopi della riunione erano:

1) raduno e inquadramento;

2) spostarci tutti per recarci sul Monte S. Martino Vallata, ove si trovavano le formazioni del capitano Mario Nardi per prendere contatti e concertare azioni comuni.

-Sulla sera partii con circa 80 uomini. Gli altri furono lasciati alle loro case o al “distretto”. L’incontro con Nardi fu molto cordiale. Egli aveva meno uomini ma erano più inquadrati e meglio armati di noi. Parlammo sino a sera inoltrata. Tutto era calmo e nulla lasciava presagire la tremenda giornata che sarebbe seguita: il 10 maggio 1944. Data che resterà memorabile nella storia della vita partigiana nel modenese.

-Il giorno si era fatto da varie ore quando venne dato l’allarme dalle nostre sentinelle. Spari isolati e lontani. Scrutammo con i binocoli la zona di Gombola ed adiacenze. A confermare le nostre supposizioni si alzarono poco dopo fumo, fiamme e fuoco dalle case del “distretto”. Affluirono staffette con notizie: 80 tedeschi circa scorrazzavano per Pompeano e dintorni; 120 tedeschi nella zona del Cervaro. I due partigiani rimasti feriti in una casa adiacente al “distretto” erano periti tra le fiamme dopo un tentativo di resistenza; Marisa, una ragazza partigiana di 15 anni, ferita; i nemici svuotavano le stalle e saccheggiavano le case della zona.

-Queste notizie fecero nascere in me una forte reazione di vendetta. Dovevamo scendere e dare loro una dura lezione. Comunicai a Nardi le mie idee che condivise appieno. Studiammo un piano di attacco, suddividendoci i compiti. Io mi sarei portato sul lato nord della linea Rossenna-Cervaro tagliando così la ritirata ai Tedeschi e spingendoli verso il basso dei due torrenti. Avrei attaccato per primo. Mi sarei attirato addosso, favorito dalla posizione, tutti i Tedeschi. Modestia a parte, era il compilo più rischioso e più delicato. Il capitano Mario, con tutti i suoi uomini, avrebbe quindi attaccato dal lato opposto al mio, prendendoli alle spalle. Otello (Otello Ghiddi), con metà uomini doveva controllarmi la strada che porta a Gombola, sia che arrivassero rinforzi sia che tentassero la ritirata da quella parte. L’altra metà doveva impedire il ricongiungimento dei Tedeschi che erano nella vallata di Pompeano con quelli di Ponte Cervaro. Radunasse e si avvalesse di quei partigiani che avevamo lasciato a casa.

-Scelsi fra i miei uomini una quarantina fra i più decisi ed i meglio armati. Formai tre squadre: una di 10 uomini al comando del Pavese, armati di mitra, pistole, moschetti e bombe a mano, ed altre due squadre di circa 14 uomini con due fucili mitragliatori ciascuna e moschetti. Una agli ordini di Carlo Scarabelli ed una agli ordini di Ennio (Enrico Salvatori), che fungeva anche da mio vice. Feci un discorsetto col quale spiegavo il nostro piano di battaglia e i compiti di ciascuno. Non vi fu bisogno di incitamenti ché tutti già erano permeati da alto spirito battagliero. Dovevamo infliggere una dura lezione al nemico, possibilmente farli tutti prigionieri; di qui l’accerchiamento studiato per tagliare ogni via di ritirata e catturare tutto il loro armamento. Avevamo due fattori a nostro vantaggio: il terreno (li avremmo buttati dall’alto in basso) e la sorpresa. Quest’ultimo era un grande elemento in quanto al primo urlo contavo di eliminare dalla lotta un terzo del nemico, di stordirlo, frastornarlo per poi batterlo ed annientarlo. Ci salutammo tutti scambiandoci auguri di vittoria.

-Partii decisamente coi miei uomini. Lungo la strada si unirono a noi altri uomini dei posti che noi attraversavamo. Regnava euforia. Solo Carlo mi sembrava, rispetto alle altre volte, pensieroso. Due o tre volte mi affiancai a lui per chiedere se avesse timori o preoccupazioni. La risposta fu sempre negativa e mi manifestò anzi la sua volontà di battere il nemico. Procedevamo con una marcia piuttosto sostenuta lungo il crinale di S. Martino-Palaveggio. La gente che ci vedeva passare, sapendo che noi andavamo al combattimento, vedendo la nostra decisione, ci distribuiva saluti, sorrisi, auguri e benedizioni.

– Scendemmo la riva di Palaveggio coperta dalla vegetazione. Passammo il Rossenna fra Talbignano e Ponte Cervaro. Staccai la squadra del Pavese che doveva coprirci da eventuali rinforzi nemici lungo la strada, che proviene da S. Pellegrinetto e da Prignano; feci assumere alle altre due squadre l’ordine sparso dall’alto al basso e procedemmo quasi a semicerchio verso Ponte Cervaro.

-Era da poco passato il mezzogiorno quando ci attestammo lungo un fosso a circa 15 metri dal ponte e stavo disponendo gli uomini in attesa di studiare il nemico, quando dalle case di là dal ponte partirono urli di allarme. Diedi l’ordine di aprire il fuoco. Rituonò, riecheggiò per tutta la vallata un formidabile fuoco di fucileria.

-Per fortuna che avevo già individuato due postazioni nemiche di mitraglie ed avevo già diviso la zona da battere in due settori, affidandone uno per ciascuno ad Ennio e a Carlo. La reazione nemica fu debole ed entrò in azione una postazione sola di mitraglia, e per poco tempo. Il nemico badò soltanto a guadagnare le case e le immediate adiacenze costituendo due nuclei di resistenza, uno al di qua del ponte Cervaro in casa dello stradino ed uno al di là nel gruppetto di case. Divenne un combattimento di posizione. Noi appostati lungo il fosso come in una trincea naturale: una squadra, quella di Ennio mi teneva a bada la stradetta di Casa Pace e una postazione di mitraglia; la squadra di Carlo il gruppo di case al di là del ponte e l’altra postazione proprio al disopra di quelle case sul pendio ripido. (Quella postazione che io avevo individualo ma che rimaneva misteriosamente silenziosa). Diedi l’ordine di sparare in parsimonia e con bersaglio quasi certo. Attendevo l’arrivo degli uomini agli ordini del capitano Mario. I Tedeschi, dal canto loro, avevano costituito come una linea contro di noi. Era quello che io volevo. All’arrivo del capitano Nardi sarebbero stati colpiti inesorabilmente alle spalle e avrebbero subite dure perdile. Poi avremmo completato l’accerchiamento e li avremmo stretti confidando nella loro resa.

-Passò circa un’ora in siffatte postazioni quando intravidi col binocolo l’arrivo della formazione del capitano Nardi. Scendevano dall’alto e certamente invisibili al nemico. Si erano divisi in tre gruppi. Capii da ciò che vi era una nuova postazione di mitraglia nemica. Si portarono a pochissimi metri al disopra. Diedi alle mie squadre l’ordine di battere col fuoco più basso, così che il nemico si scoprisse maggiormente. Infatti entrò in azione la terza postazione. Vidi gli uomini agli ordini del capitano Mario e di Dorando gettarsi letteralmente addosso agli uomini che erano nelle due postazioni più oltre. Quasi di colpo e contemporaneamente due postazioni caddero in mano agli uomini di Nardi. La terza era bloccata, accerchiata. Urla di vittoria sovrastavano i colpi e l’eco della fucileria. Pochi tedeschi superstiti guadagnarono le case. Era evidente che là dentro si sarebbero asserragliati.

-Il fuoco si era affievolito da tutte le parti. Il compito di snidarli divenne un problema insolubile. E lo stesso ragionamento era stato fatto quasi di certo dal capitano Mario in quanto i suoi uomini si erano appostali.

-Convenni che se volevo raggiungere l’obiettivo senza mettere a repentaglio la vita dei miei uomini, non vi era altra soluzione che attendere il buio. Un buon accerchiamento e le bombe a mano avrebbero risolto la situazione. Il buio però era ancora lontano. E si trattava di pazientare. Tanto tutte le vie di accesso erano sotto il nostro controllo, dalle squadre di Otello e del Pavese. Invitammo per più volte il nemico alla resa. Tentai l’invio di un parlamentare con tanto di fazzoletto bianco sul fucile col solo risultato che fu accolto da una scarica andata fortunatamente a vuoto. Inviai un uomo per il collegamento con Nardi per fargli dire che poco prima del sopraggiungere del buio avrei accerchiato la casa dello stradino e li avrei obbligati alla resa, e che poi lungo il ponte ed adiacenze avrei tentalo l’accerchiamento degli altri nelle tre case, e che lui con gli uomini cercasse di impedire loro la fuga.

-Ormai erano colpi isolali ed il nemico badava a non scoprirsi. Carlo mi comunicò che tutti e due i mitragliatori erano inceppati. Mi spostai dal primo e dopo un bel po’ di tempo lo rimisi in funzione. Mi stavo portando dal secondo quando rintronarono alcuni colpi isolati. Mentre pensavo di essermi scoperto troppo vidi Carlo reclinare la testa. Quello fu l’attimo del capovolgimento della situazione: i rinforzi nemici ci piombarono di colpo addosso. Tutto il guaio era imputabile quasi per intero al Pavese. Se almeno avesse gettato l’allarme, si sarebbero risparmiate tante vite. Avrei preso le armi del nemico e non avrei perso le mie. Inoltre avevamo un nemico ridotto pressoché a zero…

-Un breve rantolo, il corpo reclinò di colpo battendo la fronte sul terreno. Le mani allentarono la presa del moschetto e si irrigidirono. Il corpo immoto di Carlo rimase là.

-Rapidamente, quasi carponi, lo raggiunsi e restando inginocchiato girai quel capo. Un viso giovanile, ben colorito, un sorriso quasi dolce sulle labbra contrastavano con la mancanza di vita. Vita tolta fulmineamente da una pallottola di Mauser. Una macchia di sangue sulla camicia mi indicò indiscutibilmente che, data la posizione a terra di sparo, la pallottola era penetrata alla sommità della spalla sinistra e certamente aveva trapassato il cuore: di qui la rapidità della morte.

-Un sibilo di una pallottola mi richiamò alla realtà della situazione. Forse lo stesso Mauser che aveva ucciso il povero Carlo si interessava di me. Istintivamente guardai in direzione della presunta posizione di partenza dello sparo ed intravvidi un Tedesco acquattato sotto un carro agricolo. La mia mano lasciò il capo di Carlo per impugnare la rivoltella e sparai rapidamente due o tre colpi.

-Non ebbi quasi tempo di sparare i suddetti colpi che una serie di sibili di pallottole mi fecero voltare subitamente la testa, intuendo che fossero stati sparati alle mie spalle ma a distanza. Era una realtà ben triste il quadro che si presentò ai miei occhi! Un numero imprecisato, ma di notevole entità, di Tedeschi stava scendendo quasi di corsa in ordine sparso, i pendii della montagna. Capii che la nostra situazione era criticissima, anzi era certamente la nostra fine perché quei tanti e tanti Tedeschi, favoriti inoltre dal terreno, avrebbero avuto rapidamente ragione di noi, anzi ci avrebbero letteralmente spazzati via, appena avessero percorse quelle poche centinaia di metri di terreno che ci dividevano. Scendevano a ventaglio, per concentrarsi nella zona ove ero io con i miei uomini, sparando furiosamente e protetti da mitragliere che avevano piazzato in posizioni dominanti.

-Pensai di arginare quel violento attacco, pur sapendo che tutto era completamente inutile, quasi confidando in chissà quale fattore esterno per modificare una così tremenda situazione.

-Balzai accanto a Ennio dicendogli che lui e la sua squadra con il mitragliatore tenessero i Tedeschi accerchiati. Volai al secondo mitragliatore indicando al puntatore e a tre uomini dove si dovevano piazzare. Contemporaneamente richiamai dal basso il terzo fucile mitragliatore con cinque fucilieri. Il quarto mitragliatore era fuori uso. Feci prendere a tutti rapidamente questa nuova posizione e i mitragliatori cominciarono a cantare furiosamente. Ma quei maledetti, dopo un attimo di arresto, incominciarono ad avanzare. Dove ne cadeva uno ne sbucavano due. Poi incominciò la musica alle nostre spalle e al nostro fianco. I Tedeschi accerchiati sortivano dalle case. Un loro mitragliatore riprese il suo canto di morte. Segno evidente che gli uomini di Nardi si erano ritirati. Era la fine!

-Guardai Ennio, il quale accompagnò con un gesto di sconforto grido: «Non c’è più niente da fare! Andiamo via!». Quasi contemporaneamente il mitragliatore di Harry tacque e immediatamente l’altro. Lanciai un grido: «Prendete il mitragliatore e via, via tutti! Si salvi chi può!» indicando con gesti la direzione di fuga, per quelli più in basso verso il basso del Rossenna, per gli altri verso la boscaglia sopra Casa Pace. Feci fuoco con la rivoltella quasi a proteggere l’inizio della fuga pensando di risparmiare le ultime due cartucce. Fui l’ultimo a lasciare il fosso.

-I miei uomini, ben pochi invero, correvano nelle direzioni indicate favoriti dal terreno accidentato. Presi la corsa a balzi tentando di raggiungere Ennio. Tutt’intorno erano spari e sibili. La corsa divenne affannosa, poi avvertii un colpo ed una fitta alle gambe. Caddi. Mi rialzai. Pallottole grandinavano da quasi tutte le parti. Ormai ero isolato. Guardai Ennio che già era lontano. Non ce l’avrei più fatta, pensai. Avrei costituito un facile bersaglio. I miei calzettoni erano insanguinati, ma le ferite dovevano essere insignificanti. Mi buttai a terra più che altro per offrire ai Tedeschi un minor bersaglio con la segreta speranza della salvezza. Ma che speravo? Mi trovavo proprio su un costoncino di un terreno che non aveva nemmeno uno sterpo e da tutte le parti mi potevano vedere facilmente. Forse la divisa kaki da ufficiale mi mimetizzava un po’. Era la mia unica speranza, per non dire illusione. D’incanto tutto il frastuono degli spari cessò. Regnò un silenzio quasi assoluto, poi riprese un qualche sparo isolato e rumori di motori lontano. Percepii un lamento. Mi resi conto che proveniva da una buca distante circa 20 metri più in basso e più in avanti di me verso Casa Pace. «Che ferita hai?» chiesi a voce bassa. «Una alla coscia destra ed una alla spalla. Sono immobilizzalo. E lei, Comandante? E lei come sta?». «Io nulla».

-Un’altra voce sulla mia sinistra si levò: «Anch’io, Comandante, sono ferito seriamente. Per me è finita!».

-«Tacete! Abbiamo i Tedeschi sopra di noi. Stanno scendendo in rastrellamento».

-Avevo visto un gruppo di circa una ventina di Tedeschi sbucare da una prominenza al disopra a meno di cento metri di distanza. Procedevano piuttosto lentamente, guardando in tutte le direzioni. Mi schiacciai il più possibile contro terra. Il cuore mi batteva fortemente e avevo l’impressione che i battiti mi sollevassero il corpo. Il cervello funzionava turbinosamente: « È la fine certa… È un assurdo farcela… Io vedo loro, loro vedranno me… nulla mi nasconde, nemmeno un filo di erba secca… È la fine, povera mamma mia e povera figlia mia… Il ruolino della mia forza sarà una condanna per tutti i miei uomini, bisogna distruggerlo, e come? Un movimento può essere fatale. Però il ruolino non posso lasciarlo nelle loro mani». Lasciai la rivoltella e grattai il terreno con le unghie. Era friabile. Rapidamente scavai una piccola buca, vi infilai il ruolino e lo coprii con la terra smossa. Ripresi la rivoltella. Avevo ancora due cartucce, disponevo di due pallottole, due sole pallottole. Le battezzai: una col nome di chi mi scopriva, la seconda, l’ultima si chiamava Marcello. Sì, era per me, perché non potevo lasciarmi catturare. Ero il Comandante. Avrebbero infierito su di me. Forse mi avrebbero torturato per avere notizie. Non potevo, non dovevo lasciarmi catturare vivo!

-Sono a cinquanta metri, scendono, scendono, presto scoccherà il mio ultimo attimo di vita. Un miracolo, solo un miracolo può salvarmi. Ma quale miracolo? E impossibile. Vi sarà una probabilità su centomila di uscirne fuori… E il cuore batteva, batteva. Chinai anche il capo per non più vederli e per diminuire la probabilità che mi vedessero. Ora udivo, udivo ormai distintamente e i passi e le parole. «Ci siamo», pensai. Un parlare più concitato e spari secchi alla mia sinistra alta. Capii che avevano finito un ferito. Un grido, un altro sparo sulla mia destra e certamente avevano finito l’altro ferito. Il mio povero cuore sobbalzava, tumultuava che quasi mi sollevava il corpo. Ed io ero lì, in mezzo, proprio lì in mezzo. Ero nel mezzo e il più scoperto di tutti.. Erano sì e no a venti metri sopra di me. Si erano divisi in due gruppi: l’uno aveva finito quello alla mia sinistra, l’altro quello alla mia destra. Ed io ero nel mezzo, allo scoperto, sia pure più in alto. Il cuore continuava a tumultuare dentro di me. Com’era stato che non mi avevano visto? Incredibile! Quale diavolo o quale santo mi aveva tenuto coperto a tutti quegli occhi? Ma non era finita! Ero sempre là, schiacciato contro terra, immobile. Potevano sopraggiungere degli altri…

-I due gruppi non li sentivo più. Erano scesi al basso. Quand’ecco – maledizione! – dalla mia sinistra, per fortuna distante, un gruppetto di Tedeschi che avanzava verso Casa Pace, procedendo in ordine sparso, evidentemente per rastrellamenti, all’incirca sulla stessa via della nostra fuga.

-Allora, con movimenti impercettibili, mi spostai sulla mia destra, fino a che il costoncino mi tenne al coperto e strisciando lentamente mi spostai verso il basso. Erano circa le sei pomeridiane. Non potevo nemmeno contare che sopraggiungesse il buio. Troppo tempo! Strisciavo, cercando di limitare al massimo i miei movimenti. Non potevo contare altro che attraversare la stradetta che portava da Ponte Cervaro a Casa Pace e quindi il fiume, appena fosse venuto buio. Non vedevo più quei Tedeschi, ma sentivo le loro voci ed arguivo che sarebbero passati almeno una decina di metri sopra di me. Ma ero sempre in quel terreno di calanchi, allo scoperto. Meglio scendere strisciando ancora un po’, ma poi sarebbe iniziato il pericolo da parte di coloro che avessero percorso la stradetta.

-Finalmente il gruppo dei Tedeschi passò, non visti da me, però lo capii dalle loro voci. Io continuai a strisciare lentamente verso il basso. Il cielo incominciò a perdere la sua luminosità. Forse ero salvo. Se fossi riuscito a guadare il Cervaro certamente sarei stato salvo, perché la boscaglia mi sarebbe stata amica. Incominciai a scivolare di nuovo sul pendio. Ora mi preoccupavano i Tedeschi che da Casa Pace sarebbero ritornati indietro certamente lungo la stradetta. Quel tratto di mulattiera che vedevo deserto, il silenzio nelle mie immediate vicinanze mi confortavano. Decisi di tentare.

-Mi rialzai, mi voltai e cominciai a scendere quel piccolo e ripido tratto con molta cautela. Ero invogliato a percorrere quegli ultimi tratti di gran carriera, ma fortunatamente mi trattenni. Percepii dei passi piuttosto lenti sulla mia sinistra, e all’altezza della curva distinsi una parte di una divisa di un tedesco che avanzava. Che fare? Ritornare sui miei passi era ormai impossibile. Quel tedesco o quei tedeschi sarebbero usciti dalla curva ed io avrei costituito un ottimo bersaglio. Infilai la rivoltella tra il cinturone e il petto, presi l’unica bomba a mano, sfilai coi denti la sicura: lanciarla e gettarmi di corsa verso il basso fu un attimo. Intravidi durante il mio rapido spostamento che si trattava di due tedeschi che sorreggevano un terzo in mezzo a loro. Qualche attimo e l’esplosione. Non mi voltai più. Proseguii a tutta andatura la mia corea. Balzavo ora tra i massi e l’acqua del Cervaro. Dovevo far presto. Forse mi prendevano di mira. Invece nulla! Nemmeno uno dei tanti spari che mi attendevo! Infilai la boscaglia senza minimamente rallentare incurante che le frasche mi sferzassero per tutto il corpo. Dovevo far il più presto possibile. Invece ancora silenzio!

-Ritenni di averci ormai interposto dello spazio sufficiente e tramutai la corsa in passo svelto. Ormai stava per sopraggiungere il buio. Ero salvo. Sì, incredibilmente salvo. Presi la direzione verso Case Veneziani attraverso i boschi, evitando persino le case amiche. Ero abbattuto, scosso, depresso. Silenzio e buio sovrastavano ormai il mio cammino. Non pensavo più a me.

-Riandavo col pensiero ai fatti più salienti della giornata. Che sfortuna! Un’azione vittoriosa tramutatasi di colpo in una disfatta… e di quali proporzioni! Primo: intanto che stavamo prendendo posizione la bambina che getta inconsciamente l’allarme fra i Tedeschi. Così mancava la sorpresa sulla quale contavo maggiormente. Secondo: la squadra esigua che avevo mandato come copertura dal lato nord al comando del Pavese, nella zona di Case Montucchi. Squadra esigua sì, ma ben dotata di armi idonee ad assestare un colpo ben duro qualora fossero sopraggiunti rinforzi, con mitra e bombe a mano, col compito di scaricare le armi e poi di ritirarsi rapidamente e di ricongiungersi con me. Compito non molto rischioso, ma per me di capitale importanza. Come minimo sarebbe stato per me e gli altri uomini un ottimo segnale di allarme. La squadra non entrò assolutamente in azione; si volatilizzò senza colpo sparare; io non ne seppi più nulla. Senz’altro questo accadde quando videro lo stragrande contingente di rinforzi tedeschi; ritennero di essere sopraffatti e distrutti. Terzo: il ritiro della formazione del capitano Nardi, che pur mi erano state di forte appoggio, e quindi la ripresa della raganella tedesca che io ritenevo eliminata. Tanto però avevano fatto. Il loro contributo fu senz’altro notevole che non conservo alcun rancore per il loro ritiro, pienamente giustificato, perché loro avevano visto la forte ondata dei rinforzi.

-Superba e tanto piena di spirito era stata la nostra marcia di avvicinamento. L’impegno forte dei miei uomini, la decisione con la quale avevano iniziato l’attacco circa al mezzogiorno. La vittoria che già ci arrideva su circa centoventi nemici superstiti, i quali si erano rintanati e asserragliati nelle case, quasi incapaci di reagire.

-Poi il sopraggiungere dei rinforzi, la tragedia, il capovolgimento della situazione; gli sconfitti che divengono vittoriosi, i vittoriosi che stanno per essere annientati. Fuga dei pochi superstiti. Ma quanti uomini avevo lascialo là?… Non lo so ancora oggi. Il conto si sperde in nomi sconosciuti.

-Carlo Scarabelli, giovane di Montebonello, Harry, tenente americano, lo “Slavo” Rino Strologo, Compagnoni Cesare e come minimo altri quattro uomini: due caduti nel tentativo di arginare l’ondata dei rinforzi e due periti quand’ero là in quel costoncino di terreno dal quale dovevano partire le ultime due pallottole. Ma quanti? Tanti, troppi per me… In partenza eravamo 43, me compreso, là in quella terra di nessuno. Poi in 42, avendo staccata la squadra del Pavese uno l’avevo mandalo di staffetta su quei maledetti calanchi. Quanti se n’erano andati?… Una dozzina con Ennio, e dovevano essere salvi; 5 o 6 erano usciti dal basso… Ma allora su quei calanchi ce n’erano rimasti di più. Tanti! Troppi! « Così ragionando, o meglio farneticando, con il rintronare nella mia testa della fucileria, con davanti agli occhi il viso di Carlo, semplice, aperto e simpatico; di Harry, taciturno e calmo; quello deciso e duro dello slavo, e gli altri. Ma quanti, che non ricordavo nemmeno più?…

-Con il passo malfermo e fiacco arrivai alle Case Veneziani, immerse nel buio e nel silenzio.

-Bussai alla porla della casa di Otello. Voci sommesse, all’interno un passo leggero. Una voce titubante di donna chiese chi fosse. «Marcello» risposi.

-Una esclamazione di sorpresa ripeté il mio nome. Subito la casa si animò, un catenaccio stridette, ramponi caddero contro i muri e la porta si spalancò. Un lume si accese, due braccia di madre amorosa mi strinsero e mi trassero all’interno. Una voce calda di lacrime ripeteva: «E vivo! E’ vivo!». Non risposi a tutte quelle effusioni di affetto, se non con una breve domanda: «E Otello?»

-Contemporaneamente mi abbandonai su una sedia appoggiando il gomito al ginocchio e la testa sulla mano. Mi facevano corona i volti silenziosi ed increduli dei due fratelli più piccoli, di una sorella e della madre di Otello. Rispettavano il mio sconfortato silenzio. Quand’ecco la stanza fu letteralmente invasa da uomini. Chi mi abbracciava, chi mi baciava, chi mi prendeva la mano, chi me la stringeva, chi mormorava parole di gioia. La voce di Otello sovrastò:

-«Ma tu sei ferito! Presto le medicazioni!»

-Feci un gesto di noncuranza e mi abbandonai sulla sedia, dicendo: «Nulla, nulla… E che ho una ferita ben più grave dentro. Sono abbattuto. Sono avvilito, vinto. Che tragedia! Quanti morti! Non me la sento più di continuare… Che diritto ho di continuare a dispone delle vostre vite? Perché questa lotta? Perché attaccare i Tedeschi quando sarebbe più comodo difendersi soltanto? Noi siamo pochissimi e quello è un esercito che sa fare la guerra ed ha metodi bestiali di condurla.

-Quel tremendo combattimento di oggi avremmo potuto evitare di farlo. Lo abbiamo voluto noi. L’ho voluto io. Io vi ho radunali e vi ho incitati, io vi ho condotti all’attacco. Ma condotti dove? Nel sentiero della morte vi ho condotti spavaldamente, sì a vendicare le malefatte, i soprusi, le distruzioni, le morti che avevano compiuto quei dannati, ma anche a giocare seriamente la vostra vita contro forze preponderanti. Non voglio essere un fabbro che forgia degli eroi… Non voglio che le nostre formazioni siano una fucina di eroici combattenti che cadono stoicamente per un ideale in questo immenso crogiuolo di distruzioni e di morti. E una lotta troppo impari. Tutto lo spirito che ci immettiamo non colma nemmeno parzialmente il grande divario di forze.

-La vita di uno dei nostri ne vale più di cento di quelle del nemico. E una lotta troppo disperata ed io vi debbo guidare in essa; ma oggi ho capito questo ed ora non mi sento più di continuarla. Il grande combattimento di oggi ci è costato tante vite: che danno ha arrecato al nemico? No, non mi tornano i conti. Rapportata alla potenza del nemico è stata come la punzecchiatura di una pulce ad un elefante. E poi loro sanno fare la guerra. Un soldato loro è forse più addestrato al combattimento di un nostro ufficiale. No! non mi sento di continuare, non posso, non debbo continuare…

-Otello, quasi senza che me ne accorgessi, mi aveva abbassato i calzettoni e mi aveva medicato due leggere ferite di striscio alle gambe. Inoltre Otello aveva allontanato gli uomini dando disposizione di pattugliamento e di sentinella. Poi mi invitò a coricarmi. Mi gettai sopra al letto così com’ero. Continuavo a parlare e mi ripetevo piangendo…

-L’alba mi ritrovò ancora a pensare e ricordare. Ormai avevo preso la soluzione: avrei lascialo decidere agli uomini. Sarei partito, da solo, ed avrei tentato di raggiungere il parmense attraverso i monti. Oppure avrei preso con me cento uomini al massimo, appena ricevuto i lanci. Avrei costituito una banda mobilissima, formato tanti piccoli depositi di armi e munizioni, nei posti più disparati. Avrei fatto colpi di mano, attacchi di sorpresa ovunque, ma mai più avrei tenuto una zona e tanto meno avrei tentalo di difenderla. Troppo rischio per noi e conseguenti rappresaglie sulla popolazione. Andare, attaccare con forte impeto e poi ritirarsi. Una vera guerriglia. Niente prigionieri. Solo i nostri feriti sarebbero stati lasciati alle cure della popolazione amica…

-Comunicai queste due soluzioni ad Otello perché interpellasse gli uomini. Questi decisero a maggioranza di voler restare a difendere le loro case e le loro famiglie. Comunicai ad Otello le segnalazioni che avrebbe dovuto fare per eventuali lanci: tre fuochi a triangolo isoscele, a circa cento metri di distanza da quello del vertice e i due di base, e fra questi due naturalmente una distanza minore. Il fuoco di vertice doveva essere, rispetto alla base in direzione contraria al vento qualora questo spirasse. Un piccolo fuoco lungo l’altezza del triangolo più o meno vicino al vertice a seconda del vento più o meno forte. Gli aerei avrebbero sgancialo lungo l’altezza del triangolo. L’orario era dalle 23 all’1 di notte.

-Raccomandai di dare sepoltura ai caduti di Ponte Cervaro. Inoltre, qualora si fosse fatto vivo il Pavese e i suoi uomini, di disarmarli e tenerli in zona. Però di non prendere nessun altro provvedimento a loro carico. Ci avrei poi pensato io che avrei fatto diventare leoni i conigli.

-Si alternavano in me alti e bassi fortissimi. Un momento facevo fuoco e fiamme. Un altro momento volevo abbandonare la lotta troppo, troppo disuguale. Se non abbandonavo dovevo essere forte, ben armato e con uomini decisi. Dovevo ottenere al più presto i rifornimenti alleati. Solo così avrei ritrovato me stesso.

-Dopo essermi accomiatato dai presenti, abbracciai Otello e promisi che sarei tornato al più presto possibile. Mi misi in viaggio. Avevo desiderio di rivedere Mario Nardi, quindi puntai verso S. Martino Vallata; tanto era all’incirca la strada che avrei percorso per portarmi nel parmense. Volevo sapere come era andata per loro; se anche loro avevano avuto perdite.

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